La consanguineità vista da Oltreoceano

Nella razza Frisona la consanguineità è una problematica di rilevanza mondiale

Attualità

La consanguineità vista da Oltreoceano

Gli effetti dell'inbreeding nella razza Holstein vengono attentamente monitorati anche nel nord America. Ne ha parlato a Cremona John B. Cole, responsabile ricerca e sviluppo di Peak (gruppo Urus)

 

Visita in Italia per John B. Cole, il genetista specializzato in valutazioni genetiche e uso delle informazioni genomiche che dopo aver lavorato per 17 anni all’Usda (il Dipartimento di agricoltura degli Stati Uniti), oggi è responsabile della Ricerca & Sviluppo di Urus, il colosso della genetica nato dalla fusione di Alta con Genex (Novagen). Nel passare da Cremona, Cole ha fatto visita all’Anafibj, e in occasione di un meeting serale con gli allevatori organizzato da Alta, ha esposto il suo punto di vista sulla selezione della razza Holstein e sugli effetti dell’inbreeding.

In tale occasione il genetista ha innanzitutto evidenziato come la genomica stia funzionando egregiamente: il progresso genetico è decollato – ha sottolineato Cole – in virtù dell’aumentata attendibilità (rispetto alla selezione genetica con indice pedigree e prove di progenie, i test genomici ci danno un maggior numero di informazioni su un maggior numero di figlie) e del ridotto intervallo generazionale (dovuto al fatto che la genotipizzazione è effettuabile sulle vitelle neonate, senza aspettare i 2 anni necessari affinchè esse entrino in produzione). Fino a quando durerà la crescita? Il miglioramento genetico di cui è stata protagonista la razza Holstein si fermerà prima o poi? Le ricerche condotte in merito dall’Usda (Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti) stimano che una vacca con il miglior assetto genetico per ciascuno dei 30 cromosomi avrebbe un Net Merit tale da generare un profitto di 7mila dollari in più rispetto a una vacca di livello genetico medio; attualmente il miglioramento genetico ci consente  di guadagnare un vantaggio di circa 30 dollari all’anno, per cui è legittimo attendersi che potremo ancora contare su diversi anni di progresso.

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Dopo aver lavorato per 17 anni all’Usda come genetista, John B. Cole è attualmente responsabile della ricerca e sviluppo di Peak del gruppo Urus (34 milioni di dosi di seme vendute nel mondo nel 2021, incluse quelle commercializzate da Alta)

 

Patti chiari

Occorre avere fiducia nella genomica? Secondo Cole la risposta è decisamente affermativa: se all’inizio dell’era genomica i test tendevano a sovrastimare il valore dei tori, che quindi, alla luce dei risultati delle prove di progenie, potevano risultare deludenti, oggi la differenza non c’è: “le verifiche di campo ci dicono che i dati sono corretti: i test di genotipizzazione attualmente disponibili predicono correttamente il valore dei riproduttori”.

Ma a livello di singolo allevamento, ha senso investire tempo e denaro in un massiccio, routinario impiego dei test di genotipizzazione? Anche in questo caso la risposta è affermativa, a patto di saper sfruttare adeguatamente i risultati nell’ambito di una precisa strategia riproduttiva: in base ai risultati del test – ha infatti suggerito l’esperto – è bene dividere la mandria e destinare soltanto il top delle bovine al ruolo di donatrici di ovuli o embrioni; quelle di seconda fascia saranno fecondate con seme sessato e tutte le altre saranno via via utilizzate come riceventi di embrioni, verranno fecondate con tori da carne oppure saranno riformate. “Negli Stati Uniti – ha infine osservato Cole – gli allevamenti più performanti e remunerativi utilizzano gli strumenti più evoluti: il 91% delle migliori aziende usa tori genomici, l’86% i test di genotipizzazione e il 69% l’embryotransfer”.

 

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Effetto collaterale

Ma occorre prendere atto che parallelamente ai prodigiosi progressi messi a segno sul fronte delle performance produttive e riproduttive, della longevità e della salute delle bovine – progressi di cui gli allevatori sono pienamente testimoni e grazie ai quali il settore lattiero sta orgogliosamente fronteggiando la crisi economica mondiale – si è verificato anche un aumento dei livelli di consanguineità.

Nell’affrontare il tema, l’esperto statunitense ha innanzitutto chiesto agli allevatori presenti se sarebbero disposti a rinunciare al miglioramento genetico assicurato dall’impiego dei tori più alti a PFT o TPI in cambio di minori livelli di consanguineità e dunque di minori problemi sanitari dovuti a tare genetiche. Negli Usa, ha poi precisato l’esperto, “ciascuno pensa che la consanguineità sia un problema del vicino”. È noto, invece, che le problematiche innescate dall’inbreeding sono ormai di rilevanza mondiale, e negli Usa come in Italia, con l’avvento dell’era della genomica, esse hanno subito un’accelerazione, verosimilmente dovuta a una concentrazione dei geni negativi.

 

Non c’è allerta

Ma quanto è acuto il problema nelle stalle a stelle e strisce? Secondo le ricerche condotte dai genetisti d’Oltreoceano, per alcuni caratteri come latte, grasso e proteine il miglioramento genetico è così spinto che per ora la depressione dovuta all’inbreeding è risibile (tabella 1). Ma per altri caratteri come il DPR (Daughter Pregnancy Rate), l’effetto deprimente comincia a essere più forte del miglioramento genetico, e nelle stalle americane si avvertono, seppure a livello ancora subliminale e dopo anni di enormi progressi, i primi rallentamenti, riconducibili a un’aumentata incidenza della mortalità embrionale.

Del resto, la frequenza di certi aplotipi come l’HH3 è prossima al 3% (tabella 2) e nuovi difetti vengono continuamente scoperti (è il caso dell’HH2). Ma quest’ultimo aspetto – ha sottolineato Cole a Cremona – è la conseguenza dell’aumentata accuratezza dei moderni strumenti di indagine. È certamente opportuno, dunque, continuare a monitorare la situazione per poter correre ai ripari prima che il problema esploda, ma secondo il genetista di Peak, non c’è di che allarmarsi: rispetto a prima, con la genomica riusciamo ad individuare tempestivamente molti più difetti genetici (sia come geni che come aplotipi) e ad eliminarli dalla razza. Possiamo insomma dormire sonni tranquilli: la presa di coscienza da parte dei produttori di genetica è forte, la risposta sarà adeguata e gli allevatori continueranno ad avere a disposizione animali sempre migliori.

 

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